Fabio Pracchia, redattore della guida Slow Wine e docente Cambium formazione, ci racconta la sua sull’agricoltura biodinamica e sulle prospettive future nel mondo del vino.
Mi occupo di vino da molti anni. La passione per il mondo della viticoltura è diventata un lavoro a tempo pieno. La mia idea di vino oggi è strettamente legata alla viticoltura. Sia per quello che riguarda la sua stessa esistenza sia per la sua qualità. Se oggi queste relazioni sembrano scontate; non era così venti anni fa quando ho iniziato. Allora il vino era pura prestazione enologica, scollegata dalla sua origine. La relazione di esistenza si deve al fatto che un vino ha senso solo se originato da un gesto agricolo consapevole. Così anche per la qualità. Un vino può essere definito di qualità se riesce a riportare nel bicchiere i caratteri originali del luogo di provenienze e dei vitigni lavorati secondo l’intenzione del viticoltore. Per essere compresa, la qualità, occorre disporre i propri sensi alla complessità alimentare che scarta le scorciatoie industriali. La biodinamica ha esaltato la figura umana nei processi di trasformazione agricola. Tale disciplina ha responsabilizzato l’intervento dell’uomo nel processo produttivo alimentare, ponendolo al centro dell’organismo agricolo.
La degustazione in ambito professionale è un’attività valida per avere un quadro generale di un andamento vendemmiale. Per come la vedo io deve essere il più “pensante” possibile. Non è possibile mettere sullo stesso piano vini di origine industriale e vini di origine artigianale. Sono per abolire le degustazioni in sede agli organismi di certificazione: in un mondo così rinnovato come quello della viticoltura mi pare stiano creando molti problemi ai vignaioli. Oggi la degustazione si basa su analisi enologiche fondate dai padri fondatori di tale disciplina. Dovrebbe, in futuro, tenere conto di una parte meno scientifica e forse più alimentare.
Le prospettive del vino italiano si legano alla capacità di reazione ai danni del virus. Non è possibile generalizzare perché il mondo del vino in Italia ha scale piuttosto diverse a seconda delle dimensioni aziendali. Il termine resilienza è molto in voga in questo periodo. Sicuramente i grandi gruppi di industriali, dipendenti da flussi economici su scala globale, hanno dimostrato minore capacità di resilienza rispetto ai piccoli produttori che hanno saputo riorganizzare azioni commerciali a volte rinunciando a imbottigliare ma almeno garantendosi un reddito tramite vendita di sfuso. Anche se non volevo sto generalizzando perché non ho dati.
I grandi però sono fondamentali perché trainano un mercato internazionale che dal vino porta alla diffusione globale di gastronomia e poi al turismo.
Credo che per il futuro sia fondamentale un’azione coordinata da agenti istituzionali per rendere la viticoltura integrata ad altre attività agricole in modo da creare un sistema complesso a più voci produttive che potrebbe trainare un intero settore, oggi troppo isolato. Il futuro della viticoltura per me dovrà essere intrecciato al quello della tutela del paesaggio e della sostenibilità ambientale. I limiti sono nel sistema burocratico e nelle denominazioni di origine. Abolirei tutta la piramide delle denominazioni che è stata creata per una viticoltura di stampo industriale e adotterei un sistema fortemente libertario basata sulla responsabilità individuale di ogni azienda.