Il vino “green” esce dalla nicchia. Ce lo racconta Pierpaolo Penco.

Tutto ciò che è biologico, biodinamico, sostenibile e “naturale” sta andando molto forte sul mercato italiano, ad iniziare dal cibo, con un trend che ora sta coinvolgendo anche il vino e un fatturato in controtendenza rispetto al consolidato calo nei consumi. Anzi, in pochi anni questo fenomeno ha mutato il volto del vino italiano, creando un nuovo spazio in un mercato maturo, anche oltre quanto sta avvenendo in altri Paesi.


Secondo i dati elaborati dal Corriere Vinicolo, settimanale dell’Unione Italiana Vini, nel 2016, gli ettari totali biologici (compresi quelli in conversione) sono saliti a 101.290, con una crescita del 24% rispetto all’anno precedente e un’incidenza sul totale vigneto italiano del 16%. Se le previsioni saranno rispettate, quindi, a breve l’Italia diventerà il più grande vigneto biologico al mondo, dopo essere già il maggiore produttore di cibo certificato come biologico.
Parallelamente allo sviluppo della Federazione Italiana Vignaioli Indipendenti, che vuole tutelare e promuovere la figura del viticoltore artigianale, dalle Alpi alla Sicilia c’è un grande fermento tra i produttori che hanno abbracciato pratiche environmentally-friendly. Ma, anche in questo caso, l’Italia delle migliaia di Comuni ha visto nascere Associazioni e Consorzi di produttori (VinNatur, ViniVeri, TripleA etc.), regole e standard qualitativi diversi, tra chi è bio, chi biodinamico (e magari si certifica Demeter), chi “naturale” e chi “ipernaturale” perché non utilizza solfiti.
Il disciplinare del vino biologico riconosciuto dall’Unione Europea, infatti, è piuttosto generico e il consumatore, che non conosce quanti ingredienti e additivi possano essere presenti nel vino oltre all’uva, non ottiene dalla certificazione una vera garanzia. Al punto che, seguendo la legge, si può produrre vino biologico in maniera quasi “industriale”. Ecco che per molti produttori questa definizione di biologico ha poco di naturale e c’è una forte spinta verso una sua visione più restrittiva.


Tale frammentazione si vede nella presenza sul mercato, con molte piccole distribuzioni specializzate. Ma soprattutto nelle attività promozionali, con alcune decine di appuntamenti durante l’anno, spesso molto identitari, alcuni dei quali si svolgono anche contemporaneamente alla maggiore fiera di settore, il Vinitaly di Verona. Partecipo frequentemente ad alcuni di questi eventi, sia per la curiosità di assaggiare vini anche di piccolissimi produttori che hanno una limitata presenza commerciale, che per osservare vignaioli e consumatori con l’occhio del professionista di marketing. Non è tuttavia questa la sede per raccontare le caratteristiche organolettiche dei vini degustati, provenienti non solo dalle tante regioni italiane ma anche dalle vicine Francia, Austria, Germania e Slovenia e, sempre più frequentemente, da Spagna, Georgia e altri paesi. Vini che spesso superano le tradizionali categorie dell’analisi sensoriale e che possono richiedere uno sforzo di comprensione a chi li ha nel bicchiere.
Il vino “green” italiano non va forte solo all’estero ma anche sul mercato domestico, coinvolgendo un segmento di consumatori che ha modelli di consumo attenti verso prodotti meno chimici, naturali o sostenibili, che vengono percepiti come migliori. Attorno a questi eventi vinicoli e a queste tipologie di prodotti si stanno creando delle vere e proprie correnti, alle volte un po’ ideologiche, tra chi beve vino biologico o biodinamico (“compro solo vino dei piccoli contadini perché non inquinano”), chi naturale (“non sopporto il gusto del vino prodotto con lieviti selezionati”) e chi è più estremista degli altri e accetta solo vini senza alcun intervento chimico a iniziare dalla solforosa (“di questi vini potrei bere 2 bottiglie e l’indomani non avere mal di testa”). Guardandoli da vicino, si tratta spesso di consumatori giovani, prevalentemente etichettabili come Millennials, qualche volta un po’ hipster nel loro look, sovrapponibili con il segmento degli appassionati di microbirrifici artigianali, con uno stile di vita che prevede una buona dose di curiosità e l’utilizzo dei social media per comunicare ed essere raggiunto dalla comunicazione. Se la brand loyalty è ovviamente bassa nei confronti delle singole etichette, è viceversa molto più alta della media per quanto riguarda la specifica categoria. Questo pubblico, infatti, appare sempre di più fidelizzato al settore del “naturale” e per tale vino sembra disposto a spendere anche un po’ di più.
Un cambiamento, quindi, non solo limitato a piccoli gruppi di appassionati ma con un impatto sempre più avvertibile anche nella distribuzione. Da un lato il retail sta abbracciando vini biologici “tradizionali” che affiancano il trend positivo del cibo, dall’altro è sempre maggiore il numero di ristoranti, anche stellati Michelin, gastro-pub o wine bar che negli ultimi anni hanno rivoluzionato le proprie carte dei vini, inserendo un numero sempre maggiore di queste referenze biologiche o naturali, spesso a scapito dei brand famosi in quanto percepiti come troppo commerciali.

Nell’ultimo report sul mercato italiano (“Italy Wine Landscapes 2020” https://www.wineintelligence.com/downloads/italy-wine-landscapes-2020/) di Wine Intelligence, agenzia inglese con cui collaboro, anche alla luce dell’emergenza COVID-19 che ci ha visti tutti coinvolti, risulta ancor più crescente la domanda dei consumatori per vini più aderenti a valori di salubrità, rispetto della natura e assenza di chimica. La categoria dei vini senza solfiti, così come quella dei vini senza conservanti, emerge come quella dall’appeal potenziale maggiore per chi acquista vino. Che si tratti di biologico, biodinamico o sostenibile, questo interesse è un segno che le aziende vinicole, soprattutto quelle che vogliono valorizzare il terroir e una produzione non standardizzata, dovrebbero considerare, perché non si parla più di moda o di nicchia ma di un segmento piuttosto ampio e diversificato.